3 novembre 2010

Solomon Kane (Coniglio Editore)

R. E. Howard, Solomon Kane, Coniglio Editore, Roma 2010, pp. 480, 16 euro




Quando qualcuno decide di trarre un blockbuster estivo da qualcosa a cui sono legato, inizio a tremare come una foglia. Se poi la produzione è anglo-franco-ceca e la regia è affidata a qualcuno la cui intera carriera consiste in un paio di horror mediocri, mi attendo una catastrofe. Il film su Solomon Kane non ha deluso le aspettative in questo senso, ma per fortuna ha avuto quella che di solito è l’unica ricaduta positiva di questo genere di iniziative: la ripubblicazione delle storie di Robert E. Howard che hanno come protagonista il Puritano.
In particolare sto parlando di quella edita da Coniglio Editore nella collana “Ai confini dell’immaginario”, che ricalca la storica edizione Fanucci del 1979 a cura del dinamico duo del fantastico in Italia, de Turris-Fusco (curatori anche della collana della Coniglio).
Il libro si presenta bene: grafica sobria, copertina bianca con scritte nere e illustrazione accattivante, formato A5 molto pratico, copertina morbida con risvolti, rilegatura solida. All’interno, l’intera produzione di Howard su Solomon Kane, compresi i frammenti, i racconti incompleti, le due riscritture di Blades of the Brotherhood e tre poesie (di cui una in due versioni), due saggi su Kane e uno sulle trasposizioni a fumetti delle avventure del Puritano. Inoltre i racconti incompiuti hanno una prosecuzione a opera di Gianluigi Zuddas, autore anche una di storia introduttiva e di una conclusiva che fanno da cornice alle altre. Questo materiale fu già scritto per l’edizione del ‘79.

Su Solomon Kane ci sarebbe da dire così tanto da travalicare i limiti e lo scopo di questo spazio. La storia in sé è presto detta: tra ‘500 e ‘600, un avventuriero puritano inglese, vittima di persecuzioni in patria, viaggia attraverso l’Europa e l’Africa raddrizzando torti, distruggendo mali atavici, affrontando banditi, pirati, schiavisti, civiltà perdute e un vasto assortimento di mostri. Ma questi racconti hanno una potenza e un fascino che travalica l’esilità delle trame e le ingenuità che si affacciano spesso nelle storie.
Kane è il personaggio che preferisco di Howard, più del barbaro-filosofo Kull, più del vitalistico e celeberrimo Conan. Ritengo il Puritano la migliore creazione letteraria del “Bardo di Cross Plains”, il più profondo e interessante dei suoi eroi. Un fanatico religioso fratello di sangue del praticante della peggiore magia nera, un combattente letale dubbioso sull’efficacia della violenza, un giustiziere spietato che nasconde un’incredibile umanità, un vendicatore di torti che usa la volontà divina come scusa per soddisfare la sua insaziabile sete di avventura e pericolo: Kane è affascinante nelle sue contraddizioni, nella ricerca incessante di qualcosa che non conosce e non riesce a trovare, nel suo continuo aggrapparsi a giustificazioni morali per spiegare il suo bisogno di viaggiare e di combattere. In lui il cavaliere errante (e la sua “reincarnazione” western, il pistolero portatore di giustizia in città senza legge), l’eroe dell’epica classica e quello biblico si fondono con una felicità mai più raggiunta. La narrativa di avventura ha in Solomon Kane una pietra miliare da cui non si può prescindere.
Il problema è: cosa c’entra Zuddas in tutto questo?
Chiariamoci: Gianluigi Zuddas è uno dei pionieri del fantastico in Italia, una figura importantissima nella faticosa penetrazione della letteratura fantasy nel nostro paese. È anche un buon autore, e quando ha scritto le sue storie su Kane era un giovane agli esordi. Ma il suo intervento in questo libro è deleterio, e non averlo eliminato da questa edizione è qualcosa di cui non mi capacito.
La stessa idea di scrivere dei racconti che aprano e chiudano la vicenda di Kane dà da pensare: passi per le origini (che già vanno a dare un colpo all’immagine dell’eroe vagabondo, di cui non si conoscono provenienza e destinazione, che Howard, grande amante delle storie western, probabilmente aveva in mente quando immaginava il suo personaggio), ma dare un seguito alla suggestiva, coinvolgente conclusione della poesia Solomon Kane’s Homecoming, è sbagliato. Ne distrugge il significato, demolisce la dimensione omerica dell’Ulisse pulp di Howard, offusca l’alone di leggenda dell’eroe che scompare, in attesa, forse, del momento di tornare.
Ma anche volendo sorvolare su questo terribile errore, la qualità degli interventi di Zuddas è drammaticamente inferiore a quella degli scritti di Howard. Si potrebbe obiettare che è l’inevitabile conseguenza del confrontare un’imitazione a un originale. Cosa che fa sorgere dubbi sull’effettiva necessità di, appunto, inserire delle imitazioni a fianco dell’originale.
Il Kane di Zuddas è rigido, schematico, ha davvero poco della profondità del personaggio di Howard. Le trame dello scrittore italiano sono probabilmente più solide e meglio congegnate di quelle dell’autore texano, ma mancano della potenza immaginativa che rende così efficaci le storie originali, e in alcuni casi sembra esserci stato un vero e proprio travisamento delle intenzioni dell’autore.
Andiamo con ordine. L’isola del Serpente Piumato è il racconto di introduzione, con protagonista un giovane Solomon Kane. Il personaggio, nel comportamento e nelle motivazioni, appare decisamente differente dalla sua versione canonica (forse troppo, colpa dell’età?). Un inizio promettente viene sciupato dal far prendere alla trama una svolta fantascientifica tanto banale quanto estranea al mondo di Howard. Superfluo.
Segue Il castello del Diavolo, ovvero: come prendere l’incompiuto più affascinante di Howard e sciuparlo con una storia poco chiara che mischia un po’ di fraintesa mitologia nordica, un mistero che il lettore risolve in circa tre righe, una minaccia che non riesce a essere credibile neanche per un attimo. Il momento peggiore del libro.
Abbiamo poi Hawk di Basti, che mi lascia perplesso. È chiarissimo chi, nelle intenzioni di Howard, dovesse essere il cattivo doppiogiochista della storia. Non serve neanche leggere con chissà che attenzione per arrivarci! Ma Zuddas trasforma quel personaggio nell’eroe positivo della vicenda. Incomprensibile.
I figli di Asshur ha invece una buona prosecuzione. Probabilmente perché si tratta dell’incompiuto più lungo di Howard, sufficiente a dare impronta e direzione alla storia. Ma Zuddas è all’altezza del compito e il racconto scorre piacevolmente fino alla fine, senza che il passaggio da una penna all’altro sia brusco come negli altri casi.
Infine, La Corona di Asa, il racconto che chiude le avventure del Puritano. Non eccellente ma scorrevole. Purtroppo ha il difetto di venire dopo Solomon Kane’s Homecoming, rovinandone il potentissimo effetto e finendo per sembrare uno sgradevole tentativo di allungare il brodo.
Insomma, tirando le somme: un buon prodotto editoriale che ripropone un classico del fantastico con cura e attenzione, ma che, forse per gusto nostalgico, ha voluto mantenere del materiale che va a rendere meno piacevole la lettura, e di cui si poteva tranquillamente fare a meno.

Cosa farebbe la signorina Rottenmeier?
La signorina Rottenmeier comprerebbe il libro (ha una grande ammirazione per i classici, anche se trova poco consona tutta quella violenza) e rifletterebbe sulla possibilità di tagliare via le pagine scritte da Zuddas. Ma dato che detesta l’idea di mutilare i libri, si limiterebbe a ignorarle e a negare decisamente, in qualunque conversazione, che dette pagine siano mai esistite.



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